mibac
L'abbazia benedettina fu fondata all'inizio del XI secolo da Guglielmo da Volpiano. Intorno al 1400 subì una fase di declino a cui seguì la soppressione; nel 1585 fu trasformata in collegiata. Vittorio Amedeo delle Lanze, nel 1770, fece costruire, su progetto attribuito a Bernardo Antonio Vittone, una nuova grande chiesa il cui impianto si sovrappone alle strutture medievali.
L'edificio originario presentava tre corte navate tagliate da un transetto sul quale si aprivano cinque cappelle absidale: con la presenza di più altari così diversi monaci avevano la possibilità di celebrare contemporaneamente la liturgia. Le pareti delle cappelle del transetto conservano coloratissimi affreschi, con motivi a finto marmo stilizzato. L'altare della croce, in posizione centrale, rappresentava il fulcro di tutto lo spazio religioso e alle sue spalle è conservata la rotonda del Santo Sepolcro, risalente alle prime fasi costruttive. La pavimentazione dell'area, costituita da una serie di mosaici a motivi geometrici e animali posti entro riquadri, è tornata alla luce nel 1979. Ai lati dell’altare si conservano due riquadri con coppie di animali affrontati. Il riquadro nord, molto lacunoso, conteneva due leoni, quello sud, meglio conservato, due grifoni rampanti separati da un tralcio vegetale. Una seconda fascia ad un livello più basso conserva entro riquadri geometricamente ripartiti in spazi romboidali, quattro aquilotti, simbolo imperiale. Completano la scena altri due grifi (simbolo cristologico) in tessere bianche e nere e inserti policromi. I mosaici di Fruttuaria, di matrice benedettina, risultano essere tra i più antichi presenti in area piemontese.
Il chiostro Settecentesco, a pianta ad ottagono regolare, rappresenta l'elemento di cerniera di tutto il complesso. Durante un recente restauro delle murature sono emersi alcuni elementi della fase romanica: si tratta di quattro piccole arcate in muratura, rette da capitelli in forma tronco conica, sostenuti da una colonnina, tutto in muratura intonacata. Il ritrovamento delle antiche strutture ha permesso di cogliere la complessità del sistema e ha reso ripercorribili mille anni di storia di questo edificio: è stato realizzato un solaio in ferro cemento a divisione della chiesa superiore, adibita alle funzioni di culto, da quella inferiore, visitabile attraverso un percorso museale didattico, grazie all'Associazione Amici di Fruttuaria.
A Fruttuaria si ritirò e morì, nel 1015, il primo re d'Italia Arduino d'Ivrea.
Visite a cura dell’Associazione “Amici di Fruttuaria”
L'abbazia benedettina fu fondata all'inizio del XI secolo da Guglielmo da Volpiano. Intorno al 1400 subì una fase di declino a cui seguì la soppressione; nel 1585 fu trasformata in collegiata. Vittorio Amedeo delle Lanze, nel 1770, fece costruire, su progetto attribuito a Bernardo Antonio Vittone, una nuova grande chiesa il cui impianto si sovrappone alle strutture medievali.
L'edificio originario presentava tre corte navate tagliate da un transetto sul quale si aprivano cinque cappelle absidale: con la presenza di più altari così diversi monaci avevano la possibilità di celebrare contemporaneamente la liturgia. Le pareti delle cappelle del transetto conservano coloratissimi affreschi, con motivi a finto marmo stilizzato. L'altare della croce, in posizione centrale, rappresentava il fulcro di tutto lo spazio religioso e alle sue spalle è conservata la rotonda del Santo Sepolcro, risalente alle prime fasi costruttive. La pavimentazione dell'area, costituita da una serie di mosaici a motivi geometrici e animali posti entro riquadri, è tornata alla luce nel 1979. Ai lati dell’altare si conservano due riquadri con coppie di animali affrontati. Il riquadro nord, molto lacunoso, conteneva due leoni, quello sud, meglio conservato, due grifoni rampanti separati da un tralcio vegetale. Una seconda fascia ad un livello più basso conserva entro riquadri geometricamente ripartiti in spazi romboidali, quattro aquilotti, simbolo imperiale. Completano la scena altri due grifi (simbolo cristologico) in tessere bianche e nere e inserti policromi. I mosaici di Fruttuaria, di matrice benedettina, risultano essere tra i più antichi presenti in area piemontese.
Il chiostro Settecentesco, a pianta ad ottagono regolare, rappresenta l'elemento di cerniera di tutto il complesso. Durante un recente restauro delle murature sono emersi alcuni elementi della fase romanica: si tratta di quattro piccole arcate in muratura, rette da capitelli in forma tronco conica, sostenuti da una colonnina, tutto in muratura intonacata. Il ritrovamento delle antiche strutture ha permesso di cogliere la complessità del sistema e ha reso ripercorribili mille anni di storia di questo edificio: è stato realizzato un solaio in ferro cemento a divisione della chiesa superiore, adibita alle funzioni di culto, da quella inferiore, visitabile attraverso un percorso museale didattico, grazie all'Associazione Amici di Fruttuaria.
A Fruttuaria si ritirò e morì, nel 1015, il primo re d'Italia Arduino d'Ivrea.
Visite a cura dell’Associazione “Amici di Fruttuaria”
L’Anfiteatro di Ivrea è stato costruito intorno alla metà del I secolo d.C., fuori dalle mura, lungo la via per Vercelli. Si presume che potesse ospitare da dieci a quindicimila spettatori. Di questo antico monumento, che si estende per una lunghezza di circa 65 metri, rimangono le fondazioni dei muri, in particolare del muro perimetrale ellittico esterno e dei muri laterali di sostituzione (termine dell’archeologia che indica una struttura in tutto o in parte sotterranea per sostenere un edificio sovrastante). Si possono inoltre ancora individuare alcuni cunicoli sotterranei dove venivano tenuti gli animali da combattimento.
L’anfiteatro eporediese è stato portato alla luce all’inizio del 1955 e, durante i lavori di scavo, sono stati rinvenuti molti frammenti di affreschi ed un lungo tratto di rivestimento in bronzo per le spalliere di sedili del podio. Per costruire l’anfiteatro i romani demolirono una villa preesistente, di cui oggi sono visibili alcuni resti archeologici. Qui sono state rinvenute monete, anfore, frammenti di statue e resti di intonaco dipinto.
La strada, che dall’anfiteatro ci conduce all’antica Eporedia, ha mantenuto la direzione della via delle Gallie che collegava direttamente Roma con i territori al di là delle Alpi. Eporedia era quindi un passaggio obbligato e diventò un importante centro commerciale, di conseguenza anche la popolazione aumentò notevolmente. La città perciò si espanse, soprattutto nel periodo imperiale, anche oltre le mura, principalmente nella parte est che era la più adatta a nuovi insediamenti. In tutta la zona compresa tra l’anfiteatro e la Porta Praetoria sorsero nuovi quartieri e ciò è documentato sia da fonti medievali sia da scavi archeologici. Un’area ad uso prevalentemente commerciale è stata scoperta a nord della Porta Praetoria.
L’Anfiteatro di Ivrea è stato costruito intorno alla metà del I secolo d.C., fuori dalle mura, lungo la via per Vercelli. Si presume che potesse ospitare da dieci a quindicimila spettatori. Di questo antico monumento, che si estende per una lunghezza di circa 65 metri, rimangono le fondazioni dei muri, in particolare del muro perimetrale ellittico esterno e dei muri laterali di sostituzione (termine dell’archeologia che indica una struttura in tutto o in parte sotterranea per sostenere un edificio sovrastante). Si possono inoltre ancora individuare alcuni cunicoli sotterranei dove venivano tenuti gli animali da combattimento.
L’anfiteatro eporediese è stato portato alla luce all’inizio del 1955 e, durante i lavori di scavo, sono stati rinvenuti molti frammenti di affreschi ed un lungo tratto di rivestimento in bronzo per le spalliere di sedili del podio. Per costruire l’anfiteatro i romani demolirono una villa preesistente, di cui oggi sono visibili alcuni resti archeologici. Qui sono state rinvenute monete, anfore, frammenti di statue e resti di intonaco dipinto.
La strada, che dall’anfiteatro ci conduce all’antica Eporedia, ha mantenuto la direzione della via delle Gallie che collegava direttamente Roma con i territori al di là delle Alpi. Eporedia era quindi un passaggio obbligato e diventò un importante centro commerciale, di conseguenza anche la popolazione aumentò notevolmente. La città perciò si espanse, soprattutto nel periodo imperiale, anche oltre le mura, principalmente nella parte est che era la più adatta a nuovi insediamenti. In tutta la zona compresa tra l’anfiteatro e la Porta Praetoria sorsero nuovi quartieri e ciò è documentato sia da fonti medievali sia da scavi archeologici. Un’area ad uso prevalentemente commerciale è stata scoperta a nord della Porta Praetoria.
Il territorio dell'attuale provincia è storicamente costituito dall'Alessandrino propriamente detto e da parte del Monferrato, oltre a qualche zona un tempo appartenente alla repubblica di Genova. Parte della documentazione conservata nell'antico archivio notarile del Monferrato riguarda località oggi appartenenti alle province limitrofe di Asti, Cuneo, Savona, Vercelli e Torino. Archivi di magistrature locali antiche, di corporazioni religiose soppresse e del marchesato, poi ducato, di Monferrato sono conservate presso l'AS Torino; Altra documentazione del marchesato si trova presso l'AS Mantova. Documentazione prevalentemente di uffici giudiziari, relativa a località del Monferrato, è conservata presso l'AS Asti.
Il territorio dell'attuale provincia è storicamente costituito dall'Alessandrino propriamente detto e da parte del Monferrato, oltre a qualche zona un tempo appartenente alla repubblica di Genova. Parte della documentazione conservata nell'antico archivio notarile del Monferrato riguarda località oggi appartenenti alle province limitrofe di Asti, Cuneo, Savona, Vercelli e Torino. Archivi di magistrature locali antiche, di corporazioni religiose soppresse e del marchesato, poi ducato, di Monferrato sono conservate presso l'AS Torino; Altra documentazione del marchesato si trova presso l'AS Mantova. Documentazione prevalentemente di uffici giudiziari, relativa a località del Monferrato, è conservata presso l'AS Asti.
L'AS Asti e' stato istituito con d.m. 15 apr. 1959; la sede e' stata ultimata nel 1964. Da allora, oltre ad alcuni archivi privati e di enti pubblici, esso ha raccolto quanto restava della documentazione di uffici statali che hanno sede nell'attuale circoscrizione provinciale. Nel 1935 fu costituita la provincia di Asti con territori delle circoscrizioni vicine, in particolare quelle di Alessandria e di Cuneo. L'attuale territorio comprende pertanto zone che nel corso del tempo fecero parte di circoscrizioni diverse (oltre quelle già ricordate, Acqui, e soprattutto Casale); la documentazione preunitaria si presenta di conseguenza frammentaria, ed e', per una parte consistente, conservata presso l'AS Torino, ed in parte minore presso l'AS Alessandria.
L'AS Asti e' stato istituito con d.m. 15 apr. 1959; la sede e' stata ultimata nel 1964. Da allora, oltre ad alcuni archivi privati e di enti pubblici, esso ha raccolto quanto restava della documentazione di uffici statali che hanno sede nell'attuale circoscrizione provinciale. Nel 1935 fu costituita la provincia di Asti con territori delle circoscrizioni vicine, in particolare quelle di Alessandria e di Cuneo. L'attuale territorio comprende pertanto zone che nel corso del tempo fecero parte di circoscrizioni diverse (oltre quelle già ricordate, Acqui, e soprattutto Casale); la documentazione preunitaria si presenta di conseguenza frammentaria, ed e', per una parte consistente, conservata presso l'AS Torino, ed in parte minore presso l'AS Alessandria.
La nuova sede dell'Archivio di Stato di Biella è stata progettata negli anni '80 sul lato nord del complesso rinascimentale di San Sebastiano, nel centro della città. Con nuova forma architettonica, negli anni '90, è stata ricostruita in superficie, sul sito di edifici demoliti negli anni sessanta, la palazzina che ospita gli spazi aperti al pubblico e gli uffici, mentre i depositi sono previsti su due piani interrati. Questo ha permesso il trasferimento da palazzo Cisterna, nel borgo del Piazzo, prima sede dell'Istituto, ormai divenuta inagibile, ma non avendo ultimato i lavori, si è dovuto ricorrere ad un deposito sussidiario collocato in zona periferica rispetto alla principale, in un capannone industriale, anni '50.
La sezione di Biella, divenuta poi Archivio di Stato, fu istituita nel 1967. Dando corpo al progetto di "archivio del Biellese" pensato da Quintino Sella a fine ottocento, poi ripreso dal commissario prefettizio Ferrerati negli anni '30 del 1900, concentra la maggior parte della memorai storica del Biellese con una consistenza di circa 6000 ml di fonti cartacee, pergamene, mappe e disegni, cartoline e fotografie, datati a partire dall'anno 1082 fin quasi ai giorni nostri. Al suo interno si è costituito il Centro studi cavaliere Pietro Torrione, sorto grazie alla liberalità della famiglia dello storiografo locale, che ha donato archivi, biblioteca, arredi e oggetti d'arte.
La nuova sede dell'Archivio di Stato di Biella è stata progettata negli anni '80 sul lato nord del complesso rinascimentale di San Sebastiano, nel centro della città. Con nuova forma architettonica, negli anni '90, è stata ricostruita in superficie, sul sito di edifici demoliti negli anni sessanta, la palazzina che ospita gli spazi aperti al pubblico e gli uffici, mentre i depositi sono previsti su due piani interrati. Questo ha permesso il trasferimento da palazzo Cisterna, nel borgo del Piazzo, prima sede dell'Istituto, ormai divenuta inagibile, ma non avendo ultimato i lavori, si è dovuto ricorrere ad un deposito sussidiario collocato in zona periferica rispetto alla principale, in un capannone industriale, anni '50.
La sezione di Biella, divenuta poi Archivio di Stato, fu istituita nel 1967. Dando corpo al progetto di "archivio del Biellese" pensato da Quintino Sella a fine ottocento, poi ripreso dal commissario prefettizio Ferrerati negli anni '30 del 1900, concentra la maggior parte della memorai storica del Biellese con una consistenza di circa 6000 ml di fonti cartacee, pergamene, mappe e disegni, cartoline e fotografie, datati a partire dall'anno 1082 fin quasi ai giorni nostri. Al suo interno si è costituito il Centro studi cavaliere Pietro Torrione, sorto grazie alla liberalità della famiglia dello storiografo locale, che ha donato archivi, biblioteca, arredi e oggetti d'arte.
La documentazione dell'Archivio di Stato di Cuneo proviene dal Tribunal de première instance de Saluces (Stato Civile Napoleonico, 1802-1813, in lingua francese), e dal Tribunale di Mondovì (Stato Civile Italiano, 1866-1899).
In particolare lo stato civile napoleonico riguarda 40 Comuni del circondario di Saluzzo, appartenenti al Dipartimento della Stura, mentre la documentazione relativa allo stato civile italiano riguarda 33 Comuni del circondario di Mondovì e comprende, in via eccezionale, anche registri parrocchiali di numerosi Comuni relativi agli anni 1853,1864 e 1865. Il lavoro di digitalizzazione dello stato civile italiano non è stato completato, pertanto la documentazione finora presente sul Portale riguarda complessivamente 73 dei 250 Comuni che attualmente costituiscono la provincia di Cuneo.
La documentazione dell'Archivio di Stato di Cuneo proviene dal Tribunal de première instance de Saluces (Stato Civile Napoleonico, 1802-1813, in lingua francese), e dal Tribunale di Mondovì (Stato Civile Italiano, 1866-1899).
In particolare lo stato civile napoleonico riguarda 40 Comuni del circondario di Saluzzo, appartenenti al Dipartimento della Stura, mentre la documentazione relativa allo stato civile italiano riguarda 33 Comuni del circondario di Mondovì e comprende, in via eccezionale, anche registri parrocchiali di numerosi Comuni relativi agli anni 1853,1864 e 1865. Il lavoro di digitalizzazione dello stato civile italiano non è stato completato, pertanto la documentazione finora presente sul Portale riguarda complessivamente 73 dei 250 Comuni che attualmente costituiscono la provincia di Cuneo.
La sede, situata nel centro storico di Novara, fu sede del Convento di S. Maria Maddalena dalla metà del XVII sec. fino al 1799: dal 1808 divenne Archivio Notarile: dal 1970 è sede di questo Istituto. I documenti conservati datano dalla fine del IX secolo al 1990; quello più antico è una permuta tra il vescovo di Novara Ernusto e un privato per terreni in località Sozzago, in scrittura merovingica. I documenti, in rapporto a diverse epoche, oltre alla città di Novara riguardano il suo contado, il Basso Novarese, la provincia di Novara in quella che fu la sua massima espansione territoriale, che in età napoleonica (dipartimento Agogna) comprendeva Vigevanasco, Lomellina, Ossola, Verbano, Cusio, Valsesia. Per il periodo dal 1848 al 1927 i documenti di alcuni fondi riguardano anche Vercellese e Biellese.
La sede, situata nel centro storico di Novara, fu sede del Convento di S. Maria Maddalena dalla metà del XVII sec. fino al 1799: dal 1808 divenne Archivio Notarile: dal 1970 è sede di questo Istituto. I documenti conservati datano dalla fine del IX secolo al 1990; quello più antico è una permuta tra il vescovo di Novara Ernusto e un privato per terreni in località Sozzago, in scrittura merovingica. I documenti, in rapporto a diverse epoche, oltre alla città di Novara riguardano il suo contado, il Basso Novarese, la provincia di Novara in quella che fu la sua massima espansione territoriale, che in età napoleonica (dipartimento Agogna) comprendeva Vigevanasco, Lomellina, Ossola, Verbano, Cusio, Valsesia. Per il periodo dal 1848 al 1927 i documenti di alcuni fondi riguardano anche Vercellese e Biellese.
Le quattro sezioni in cui si articola l’Archivio di Stato di Torino sono lo specchio e il risultato di una vicenda plurisecolare. L’originario Tesoro di carte dei conti di Savoia risale al XII secolo, anche se i primi atti che documentano l’esistenza di un Archivio comitale, affidato alla gestione di archivisti, sono del XIV secolo.
Conservato durate il medioevo a Chambéry, capitale prima della contea e poi, dal 1416, del ducato di Savoia, l’Archivio della dinastia sabauda si divise ben presto in due rami. Un Archivio venne destinato a conservare i titoli, i documenti politicamente e giuridicamente più importanti per la dinastia (concessioni o privilegi imperiali e papali, trattati di politica estera, contratti matrimoniali). Nel secondo Archivio, invece, confluirono i documenti relativi alla contabilità e alle finanze, prodotti dalla Camera computorum (la Camera dei Conti).
Le quattro sezioni in cui si articola l’Archivio di Stato di Torino sono lo specchio e il risultato di una vicenda plurisecolare. L’originario Tesoro di carte dei conti di Savoia risale al XII secolo, anche se i primi atti che documentano l’esistenza di un Archivio comitale, affidato alla gestione di archivisti, sono del XIV secolo.
Conservato durate il medioevo a Chambéry, capitale prima della contea e poi, dal 1416, del ducato di Savoia, l’Archivio della dinastia sabauda si divise ben presto in due rami. Un Archivio venne destinato a conservare i titoli, i documenti politicamente e giuridicamente più importanti per la dinastia (concessioni o privilegi imperiali e papali, trattati di politica estera, contratti matrimoniali). Nel secondo Archivio, invece, confluirono i documenti relativi alla contabilità e alle finanze, prodotti dalla Camera computorum (la Camera dei Conti).
L’archivio di Stato di Verbania è stato istituito con Decreto Ministeriale 27 marzo 1972 come Sezione dell’Archivio di stato di Novara. In seguito all’istituzione della nuova Provincia del Verbano Cusio Ossola, il 1° maggio 1998 l’Istituto divenne autonomo amministrativamente trasformandosi in Archivio di Stato di Verbania.
L’archivio di Stato di Verbania è stato istituito con Decreto Ministeriale 27 marzo 1972 come Sezione dell’Archivio di stato di Novara. In seguito all’istituzione della nuova Provincia del Verbano Cusio Ossola, il 1° maggio 1998 l’Istituto divenne autonomo amministrativamente trasformandosi in Archivio di Stato di Verbania.
Istituito nel 1965, ha la sua sede principale nel centro storico di Vercelli, nell'antico monastero della Visitazione, detto anche di Santa Maria delle Grazie. Il complesso ospitò dapprima una comunità di clarisse, poi dal 1485 un gruppo di agostiniane. Nel 1641 queste furono sostituite dalle visitandine provenienti da Aosta, che rimasero fino alla soppressione generale degli ordini religiosi (1802). Nel 1804, l'edificio fu adibito a sede del Collegio di Vercelli dove insegnò lo scienziato Amedeo Avogadro di Quaregna (1809-19). Nel 1836 gli edifici monastici furono dati in uso alla vicina caserma di cavalleria. La chiesa divenne stalla e infermeria. Nel 1844 una radicale trasformazione degli edifici prevedeva, tra l'altro, la pressoché totale scomparsa dell'antico chiostro. Fortunatamente la proposta non ebbe seguito. Dopo la scoperta di pregevoli affreschi cinquecenteschi, attribuibili in parte a Eusebio Ferrari, staccati e ora conservati presso il museo Borgogna di Vercelli, .nel 1964 l'edificio venne sottoposto al vincolo monumentale. Nel 1980, dopo l'assegnazione all'Archivio di Stato, furono intrapresi complessi lavori di restauro nel corso dei quali sono stati rinvenuti numerosi reperti di epoca romana e medievale. In una sala è visibile una colonna proveniente da un edificio dell'epoca imperiale (sec. I o II). Il chiostro mantiene l'impronta originaria. Sulle facciate interne verso il cortile sono ben visibili le decorazioni delle antiche finestre. In un lato vi è una meridiana settecentesca restaurata.
Una seconda sede, attualmente in ristrutturazione ad uso deposito, si trova in corso San Martino nelle ex Officine elettriche di Vercelli.
L'Archivio di Stato di Vercelli amministra attualmente una sezione con sede in Varallo Sesia.
Il patrimonio documentario dell'Archivio di Stato di Vercelli occupa oltre 17 Km di scaffalatura, per un totale di 106.457 unità archivistiche (mazzi, registri, volumi, etc.), oltre 8700 disegni e mappe e 5352 pergamene.
Istituito nel 1965, ha la sua sede principale nel centro storico di Vercelli, nell'antico monastero della Visitazione, detto anche di Santa Maria delle Grazie. Il complesso ospitò dapprima una comunità di clarisse, poi dal 1485 un gruppo di agostiniane. Nel 1641 queste furono sostituite dalle visitandine provenienti da Aosta, che rimasero fino alla soppressione generale degli ordini religiosi (1802). Nel 1804, l'edificio fu adibito a sede del Collegio di Vercelli dove insegnò lo scienziato Amedeo Avogadro di Quaregna (1809-19). Nel 1836 gli edifici monastici furono dati in uso alla vicina caserma di cavalleria. La chiesa divenne stalla e infermeria. Nel 1844 una radicale trasformazione degli edifici prevedeva, tra l'altro, la pressoché totale scomparsa dell'antico chiostro. Fortunatamente la proposta non ebbe seguito. Dopo la scoperta di pregevoli affreschi cinquecenteschi, attribuibili in parte a Eusebio Ferrari, staccati e ora conservati presso il museo Borgogna di Vercelli, .nel 1964 l'edificio venne sottoposto al vincolo monumentale. Nel 1980, dopo l'assegnazione all'Archivio di Stato, furono intrapresi complessi lavori di restauro nel corso dei quali sono stati rinvenuti numerosi reperti di epoca romana e medievale. In una sala è visibile una colonna proveniente da un edificio dell'epoca imperiale (sec. I o II). Il chiostro mantiene l'impronta originaria. Sulle facciate interne verso il cortile sono ben visibili le decorazioni delle antiche finestre. In un lato vi è una meridiana settecentesca restaurata.
Una seconda sede, attualmente in ristrutturazione ad uso deposito, si trova in corso San Martino nelle ex Officine elettriche di Vercelli.
L'Archivio di Stato di Vercelli amministra attualmente una sezione con sede in Varallo Sesia.
Il patrimonio documentario dell'Archivio di Stato di Vercelli occupa oltre 17 Km di scaffalatura, per un totale di 106.457 unità archivistiche (mazzi, registri, volumi, etc.), oltre 8700 disegni e mappe e 5352 pergamene.
L'attuale sede della Sezione di Archivio di Stato di Varallo, dopo il trasferimento nel 1990 dal seicentesco Palazzo Racchetti, è situata all'interno di un ampio complesso edilizio tipico degli insediamenti industriali del primo Novecento. L'area, ubicata all'estremo nord di Varallo, nei pressi della confluenza del torrente Mastallone nel fiume Sesia, comprende tre strutture edilizie derivate dall'insediamento industriale per la lavorazione del cotone impiantato nel 1876. Lo sviluppo dell'insediamento nei primi anni del secolo portò all'ampliamento e al rinnovo del patrimonio edilizio con la realizzazione, in una porzione dell'area separata dallo stabilimento, di un Convitto, di un Asilo destinato ai figli degli operai e di una chiesetta. L'attuale sede dell'Archivio era il Convitto delle operaie, gestito fino agli scorsi anni Settanta dalle suore dell'ordine di Maria Ausiliatrice: si tratta di un edificio di quattro piani, il cui piano terra è in dotazione all'Archivio mentre i piani superiori, originariamente adibiti a dormitorio per le convittrici, sono stati adibiti a deposito così come l'ex chiesa, a navata unica in stile neogotico. Gli edifici sono immersi in un'ampia area verde dotata di alberi da frutta, fiori e piante ornamentali.La sezione di Varallo dell'Archivio di Stato di Vercelli, istituita con decreto ministeriale del 27 dicembre 1973 e regolarmente operativa a partire dal settembre 1978, conserva e tutela la documentazione degli archivi valsesiani.
Nel complesso la documentazione conservata nella sezione consta di circa 24.000 mazzi e registri, di 1017 pergamene e 2768 mappe. È abbastanza consistente la documentazione relativa agli archivi storici comunali ed agli enti assistenziali; lacunosa e frammentaria è, invece, la documentazione delle preture post unitarie, così come è andata perduta quella delle antiche corporazioni religiose. La sezione dispone anche di una biblioteca di circa 5000 volumi, opuscoli e periodici.
L'attuale sede della Sezione di Archivio di Stato di Varallo, dopo il trasferimento nel 1990 dal seicentesco Palazzo Racchetti, è situata all'interno di un ampio complesso edilizio tipico degli insediamenti industriali del primo Novecento. L'area, ubicata all'estremo nord di Varallo, nei pressi della confluenza del torrente Mastallone nel fiume Sesia, comprende tre strutture edilizie derivate dall'insediamento industriale per la lavorazione del cotone impiantato nel 1876. Lo sviluppo dell'insediamento nei primi anni del secolo portò all'ampliamento e al rinnovo del patrimonio edilizio con la realizzazione, in una porzione dell'area separata dallo stabilimento, di un Convitto, di un Asilo destinato ai figli degli operai e di una chiesetta. L'attuale sede dell'Archivio era il Convitto delle operaie, gestito fino agli scorsi anni Settanta dalle suore dell'ordine di Maria Ausiliatrice: si tratta di un edificio di quattro piani, il cui piano terra è in dotazione all'Archivio mentre i piani superiori, originariamente adibiti a dormitorio per le convittrici, sono stati adibiti a deposito così come l'ex chiesa, a navata unica in stile neogotico. Gli edifici sono immersi in un'ampia area verde dotata di alberi da frutta, fiori e piante ornamentali.La sezione di Varallo dell'Archivio di Stato di Vercelli, istituita con decreto ministeriale del 27 dicembre 1973 e regolarmente operativa a partire dal settembre 1978, conserva e tutela la documentazione degli archivi valsesiani.
Nel complesso la documentazione conservata nella sezione consta di circa 24.000 mazzi e registri, di 1017 pergamene e 2768 mappe. È abbastanza consistente la documentazione relativa agli archivi storici comunali ed agli enti assistenziali; lacunosa e frammentaria è, invece, la documentazione delle preture post unitarie, così come è andata perduta quella delle antiche corporazioni religiose. La sezione dispone anche di una biblioteca di circa 5000 volumi, opuscoli e periodici.
Fondata da veterani dell'imperatore Ottaviano Augusto nell’ultimo quarto del I secolo a.C. nella media valle del Tanaro, in antico corrispondente alla Liguria interna, Augusta Bagiennorum era di importanza strategica per il controllo del transito tra la pianura padana, il mare, le valli degli affluenti del Po ed i valichi alpini.
I resti si trovano nella piana della Roncaglia, a circa due km dall’abitato di Bene Vagienna; furono riportati alla luce tra il 1892 e il 1909 dagli scavi degli studiosi benesi Giuseppe Assandria e Giovanni Vacchetta nel contesto di un'impresa archeologica dal sapore avventuroso e romantico. Oggi gli esperti affermano infatti che le tecniche di scavo adottate dai due erano ormai largamente superate. Tuttavia, disponendo di risorse davvero ingenti, fu loro possibile pagare la notevole quantità di manodopera necessaria, ottenendo risultati al di là di ogni attesa.
Fondata da veterani dell'imperatore Ottaviano Augusto nell’ultimo quarto del I secolo a.C. nella media valle del Tanaro, in antico corrispondente alla Liguria interna, Augusta Bagiennorum era di importanza strategica per il controllo del transito tra la pianura padana, il mare, le valli degli affluenti del Po ed i valichi alpini.
I resti si trovano nella piana della Roncaglia, a circa due km dall’abitato di Bene Vagienna; furono riportati alla luce tra il 1892 e il 1909 dagli scavi degli studiosi benesi Giuseppe Assandria e Giovanni Vacchetta nel contesto di un'impresa archeologica dal sapore avventuroso e romantico. Oggi gli esperti affermano infatti che le tecniche di scavo adottate dai due erano ormai largamente superate. Tuttavia, disponendo di risorse davvero ingenti, fu loro possibile pagare la notevole quantità di manodopera necessaria, ottenendo risultati al di là di ogni attesa.
La città romana, che mantiene il toponimo preromano, fu fondata nel I secolo a.C. in una posizione strategica, dominante la valle, in un territorio già frequentato dal Neolitico (IV-III millennio a.C.).
Dopo la realizzazione della via Postumia (148 a.C.), il centro ricevette grande impulso e raggiunse la massima fioritura in età imperiale (I-II secolo d.C.). Divenne così una città caratterizzata dalle tipiche forme monumentali dell’urbanistica romana: la piazza forense, i templi, teatro e anfiteatro, terme e complessi residenziali privati.
Nel corso della tarda antichità e dell’alto medioevo Libarna si ridusse ad un villaggio, finché la costruzione delle strutture fortificate di Serravalle ed Arquata causò il definitivo spostamento della popolazione in questi siti meglio difesi.
La scoperta di Libarna, fondamentale testimonianza della romanizzazione della regio IX Liguria, avvenne nel XIX secolo, in occasione della costruzione della Strada Regia dei Giovi (1821-1823) e delle ferrovie Torino-Genova (1850) e Milano-Genova (1911). L’area archeologica oggi visitabile corrisponde a circa un decimo della città originaria, per buona parte messa in luce dalle successive ricerche della Soprintendenza per i beni archeologici del Piemonte.
La città era attestata su due assi viari: la via Postumia (cardine massimo) e il decumano massimo che la intersecava perpendicolarmente. Gli isolati sono occupati da abitazioni private, costruite a partire dalla fine del I secolo a.C. con ambienti disposti attorno ad un cortile porticato centrale (peristilio). Alcune mostrano consistente ampiezza e ricchezza decorativa: sono stati rinvenuti pavimenti in lastre di marmo e un grande mosaico raffigurante il mito di Licurgo e Ambrosia. La costruzione dell’anfiteatro (II secolo d.C.) modificò in gran parte la natura dell’isolato, che vide l’apertura di botteghe e di una locanda. Alcuni tra i materiali archeologici più significativi sono attualmente esposti presso il Museo di Antichità di Torino e nell’Area MuLa città romana, che mantiene il toponimo preromano, fu fondata nel I secolo a.C. in una posizione strategica, dominante la valle, in un territorio già frequentato dal Neolitico (IV-III millennio a.C.).seale di Libarna, ospitata nel Palazzo comunale di Serravalle Scrivia.
La città romana, che mantiene il toponimo preromano, fu fondata nel I secolo a.C. in una posizione strategica, dominante la valle, in un territorio già frequentato dal Neolitico (IV-III millennio a.C.).
Dopo la realizzazione della via Postumia (148 a.C.), il centro ricevette grande impulso e raggiunse la massima fioritura in età imperiale (I-II secolo d.C.). Divenne così una città caratterizzata dalle tipiche forme monumentali dell’urbanistica romana: la piazza forense, i templi, teatro e anfiteatro, terme e complessi residenziali privati.
Nel corso della tarda antichità e dell’alto medioevo Libarna si ridusse ad un villaggio, finché la costruzione delle strutture fortificate di Serravalle ed Arquata causò il definitivo spostamento della popolazione in questi siti meglio difesi.
La scoperta di Libarna, fondamentale testimonianza della romanizzazione della regio IX Liguria, avvenne nel XIX secolo, in occasione della costruzione della Strada Regia dei Giovi (1821-1823) e delle ferrovie Torino-Genova (1850) e Milano-Genova (1911). L’area archeologica oggi visitabile corrisponde a circa un decimo della città originaria, per buona parte messa in luce dalle successive ricerche della Soprintendenza per i beni archeologici del Piemonte.
La città era attestata su due assi viari: la via Postumia (cardine massimo) e il decumano massimo che la intersecava perpendicolarmente. Gli isolati sono occupati da abitazioni private, costruite a partire dalla fine del I secolo a.C. con ambienti disposti attorno ad un cortile porticato centrale (peristilio). Alcune mostrano consistente ampiezza e ricchezza decorativa: sono stati rinvenuti pavimenti in lastre di marmo e un grande mosaico raffigurante il mito di Licurgo e Ambrosia. La costruzione dell’anfiteatro (II secolo d.C.) modificò in gran parte la natura dell’isolato, che vide l’apertura di botteghe e di una locanda. Alcuni tra i materiali archeologici più significativi sono attualmente esposti presso il Museo di Antichità di Torino e nell’Area MuLa città romana, che mantiene il toponimo preromano, fu fondata nel I secolo a.C. in una posizione strategica, dominante la valle, in un territorio già frequentato dal Neolitico (IV-III millennio a.C.).seale di Libarna, ospitata nel Palazzo comunale di Serravalle Scrivia.
L'area compresa tra l'Arco di Augusto, gli Archi dell'acquedotto (con la roccia basale tagliata da coppelle di epoca protostorica, un pozzo e limiti di edifici di età romana) e la spianata del Castello detto della contessa Adelaide costituisce un insieme storico-monumentale di grande rilievo, legato alla romanizzazione del distretto alpino (13 a.C.), alla fortificazione tardoantica della capitale della Provincia delle Alpi Cozie (cinta muraria) e all'incastellamento medievale (XI secolo), primo sbocco dei Savoia verso la pianura padana.
Da segnalare inoltre la sottostante piazza Savoia, dove sono visibili i resti del tempio del foro, emersi durante i lavori di sistemazione della piazza (2005-2008): su questa prospetta la Porta del Paradiso, unica porta urbica di epoca romana ancora conservata, rendendo questo il punto di partenza di un percorso di visita che si può estendere al tutto il centro storico.
Il Castello nella conformazione attuale è il risultato della giustapposizione di più corpi di fabbrica, a partire dal medioevo sino al XVIII secolo. Nel cortile, le prime indagini archeologiche hanno portato in luce una serie di strutture riferibili al primitivo palazzo del governatore della provincia romana delle Alpi Cozie (Praetorium), che occupava il settore più elevato della città, poi modificato e fortificato tra la fine del III e il IV secolo d.C. Tra le strutture più antiche (I secolo d.C.) risulta un ingresso monumentale con scalone in pietra, che doveva consentire il superamento del dislivello tra la strada antica (appena oltrepassato l’arco onorario dedicato ad Augusto nel 9/8 a.C., monumento simbolo della città) e la parte aulica dell’edificio. Quest’ultima è parzialmente emersa nel corso dei recenti lavori di ristrutturazione al di sotto dei pavimenti moderni: si sono individuati lacerti di pavimentazioni a mosaico o in battuto di malta, a loro volta collocati su ambienti di sostruzione con volte a botte. Tali ambienti sono rimasti in gran parte immutati e costituiscono da secoli le cantine del castello. E’ inoltre presente un settore di scavo a cielo aperto, accessibile dalla porta tardo-antica ripristinata durante gli scavi del Soprintendente Carlo Carducci (1938-1947), dove sono visibili alcuni ambienti del pretorio, in particolare una cisterna ed una latrina tardo-antiche. Il tutto è poi collegato al sistema di fortificazione tardo-romana/medievale e al tratto terminale dell’acquedotto che vi arriva da ovest (le cosiddette “Terme Graziane”).
Il sito dell'Anfiteatro romano di Segusio si trova a sud del centro antico, tra la strada S. Francesco e la strada della Consolata. Di piccole dimensioni (m 60 x 53 ca.), conserva il muro perimetrale dell'arena, con i carceres ed un corridoio perimetrale voltato, e parte delle gradinate in pietra, fortemente reintegrate. Viene genericamente datato al II secolo d.C.
L'area compresa tra l'Arco di Augusto, gli Archi dell'acquedotto (con la roccia basale tagliata da coppelle di epoca protostorica, un pozzo e limiti di edifici di età romana) e la spianata del Castello detto della contessa Adelaide costituisce un insieme storico-monumentale di grande rilievo, legato alla romanizzazione del distretto alpino (13 a.C.), alla fortificazione tardoantica della capitale della Provincia delle Alpi Cozie (cinta muraria) e all'incastellamento medievale (XI secolo), primo sbocco dei Savoia verso la pianura padana.
Da segnalare inoltre la sottostante piazza Savoia, dove sono visibili i resti del tempio del foro, emersi durante i lavori di sistemazione della piazza (2005-2008): su questa prospetta la Porta del Paradiso, unica porta urbica di epoca romana ancora conservata, rendendo questo il punto di partenza di un percorso di visita che si può estendere al tutto il centro storico.
Il Castello nella conformazione attuale è il risultato della giustapposizione di più corpi di fabbrica, a partire dal medioevo sino al XVIII secolo. Nel cortile, le prime indagini archeologiche hanno portato in luce una serie di strutture riferibili al primitivo palazzo del governatore della provincia romana delle Alpi Cozie (Praetorium), che occupava il settore più elevato della città, poi modificato e fortificato tra la fine del III e il IV secolo d.C. Tra le strutture più antiche (I secolo d.C.) risulta un ingresso monumentale con scalone in pietra, che doveva consentire il superamento del dislivello tra la strada antica (appena oltrepassato l’arco onorario dedicato ad Augusto nel 9/8 a.C., monumento simbolo della città) e la parte aulica dell’edificio. Quest’ultima è parzialmente emersa nel corso dei recenti lavori di ristrutturazione al di sotto dei pavimenti moderni: si sono individuati lacerti di pavimentazioni a mosaico o in battuto di malta, a loro volta collocati su ambienti di sostruzione con volte a botte. Tali ambienti sono rimasti in gran parte immutati e costituiscono da secoli le cantine del castello. E’ inoltre presente un settore di scavo a cielo aperto, accessibile dalla porta tardo-antica ripristinata durante gli scavi del Soprintendente Carlo Carducci (1938-1947), dove sono visibili alcuni ambienti del pretorio, in particolare una cisterna ed una latrina tardo-antiche. Il tutto è poi collegato al sistema di fortificazione tardo-romana/medievale e al tratto terminale dell’acquedotto che vi arriva da ovest (le cosiddette “Terme Graziane”).
Il sito dell'Anfiteatro romano di Segusio si trova a sud del centro antico, tra la strada S. Francesco e la strada della Consolata. Di piccole dimensioni (m 60 x 53 ca.), conserva il muro perimetrale dell'arena, con i carceres ed un corridoio perimetrale voltato, e parte delle gradinate in pietra, fortemente reintegrate. Viene genericamente datato al II secolo d.C.
La fondazione ufficiale dell'attuale Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino si colloca nel 1723 quando per volontà del sovrano Vittorio Amedeo II di Savoia, venivano accorpati nei nuovi locali della Regia Università di via Po i tre principali fondi librari presenti nella città: i libri del Comune; la raccolta della Regia Università, generalmente legata alle esigenze dei docenti e degli studenti; i libri della corona, raccolti dai duchi di Savoia.
La Biblioteca della Regia Università si distinse fin da subito per il lavoro di catalogazione del patrimonio manoscritto, intrapreso dall'Abate Francesco Domenico Bencini, ma soprattutto dall'Abate Giuseppe Pasini di Padova, prefetto tra il 1745 e il 1770, il quale editò, insieme con Antonio Rivautella e Francesco Berta, ex Typographia Regia, il catalogo Codices manuscripti Bibliothecae Regii Taurinensis Athenaei per linguas digesti et binas in parte distributi.
L'Istituto incrementò anche il suo patrimonio di libri a stampa, grazie al privilegio concesso del diritto di stampa, a cospicui doni e all'acquisto di svariati fondi. Ulteriori collezioni pervennero in seguito alla soppressione della Compagnia di Gesù, e in epoca napoleonica quando le soppressioni conventuali fecero incamerare numerose biblioteche ecclesiastiche con un patrimonio librario di più di 30.000 volumi.
La ricchezza dei fondi conservati nel XIX secolo fece sì che la Biblioteca, al momento della riorganizzazione delle biblioteche italiane, avvenuta con il R.D. del 20 gennaio 1876, venisse inclusa tra quelle autonome di primo grado e fregiata del titolo di Nazionale preposto a quello tradizionale di Universitaria, in quanto incaricata "di rappresentare, nella sua continuità e generalità, il progresso e lo stato della cultura italiana e straniera".
Nel 1904 un fatto catastrofico sconvolse la vita dell'Istituto: nella notte tra il 25 e il 26 gennaio presero fuoco cinque sale della biblioteca compromettendo, irrimediabilmente, la sezione dei manoscritti, degli incunaboli piemontesi, delle aldine e della consultazione.
Nel corso del XX sec. continuarono le acquisizioni, anche di fondi preziosissimi; durante il secondo conflitto mondiale, nel bombardamento di Torino dell'8 dicembre 1942, furono distrutti più di 15.000 volumi (tra cui quelli geografici con gli atlanti antichi ricchi di mappe) e porzioni del catalogo generale.
Nel 1957 iniziò la costruzione dell'attuale sede di piazza Carlo Alberto che terminò nel 1973, quando si procedette al trasloco dei volumi e degli uffici.
Il 15 ottobre 1973 veniva inaugurata la nuova Biblioteca. Due anni dopo la gestione dell'Istituto passò dal Ministero della Pubblica Istruzione al neonato Ministero dei Beni Culturali e Ambientali e nel 1998 al nuovo Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
La fondazione ufficiale dell'attuale Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino si colloca nel 1723 quando per volontà del sovrano Vittorio Amedeo II di Savoia, venivano accorpati nei nuovi locali della Regia Università di via Po i tre principali fondi librari presenti nella città: i libri del Comune; la raccolta della Regia Università, generalmente legata alle esigenze dei docenti e degli studenti; i libri della corona, raccolti dai duchi di Savoia.
La Biblioteca della Regia Università si distinse fin da subito per il lavoro di catalogazione del patrimonio manoscritto, intrapreso dall'Abate Francesco Domenico Bencini, ma soprattutto dall'Abate Giuseppe Pasini di Padova, prefetto tra il 1745 e il 1770, il quale editò, insieme con Antonio Rivautella e Francesco Berta, ex Typographia Regia, il catalogo Codices manuscripti Bibliothecae Regii Taurinensis Athenaei per linguas digesti et binas in parte distributi.
L'Istituto incrementò anche il suo patrimonio di libri a stampa, grazie al privilegio concesso del diritto di stampa, a cospicui doni e all'acquisto di svariati fondi. Ulteriori collezioni pervennero in seguito alla soppressione della Compagnia di Gesù, e in epoca napoleonica quando le soppressioni conventuali fecero incamerare numerose biblioteche ecclesiastiche con un patrimonio librario di più di 30.000 volumi.
La ricchezza dei fondi conservati nel XIX secolo fece sì che la Biblioteca, al momento della riorganizzazione delle biblioteche italiane, avvenuta con il R.D. del 20 gennaio 1876, venisse inclusa tra quelle autonome di primo grado e fregiata del titolo di Nazionale preposto a quello tradizionale di Universitaria, in quanto incaricata "di rappresentare, nella sua continuità e generalità, il progresso e lo stato della cultura italiana e straniera".
Nel 1904 un fatto catastrofico sconvolse la vita dell'Istituto: nella notte tra il 25 e il 26 gennaio presero fuoco cinque sale della biblioteca compromettendo, irrimediabilmente, la sezione dei manoscritti, degli incunaboli piemontesi, delle aldine e della consultazione.
Nel corso del XX sec. continuarono le acquisizioni, anche di fondi preziosissimi; durante il secondo conflitto mondiale, nel bombardamento di Torino dell'8 dicembre 1942, furono distrutti più di 15.000 volumi (tra cui quelli geografici con gli atlanti antichi ricchi di mappe) e porzioni del catalogo generale.
Nel 1957 iniziò la costruzione dell'attuale sede di piazza Carlo Alberto che terminò nel 1973, quando si procedette al trasloco dei volumi e degli uffici.
Il 15 ottobre 1973 veniva inaugurata la nuova Biblioteca. Due anni dopo la gestione dell'Istituto passò dal Ministero della Pubblica Istruzione al neonato Ministero dei Beni Culturali e Ambientali e nel 1998 al nuovo Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Capolavoro dello stile Barocco, la Cappella della SS Sindone venne progettata e realizzata da Guarino Guarini, matematico, teologo ed architetto modenese, tra il 1668 ed il 1694 per volontà di Carlo Emanuele di Savoia. La Cappella a pianta circolare, ospita il sacro lenzuolo della SS Sindone dal 1694 ed è sormontata da un'altra cupola in pietra bigia di frabosa, mirabile successione di forme geometriche tra loro concatenate che creano uno splendido gioco di luci e di ombre. Diverse stelle di bronzo vennero intarsiate nel pavimento, realizzato in marmo bianco e grigio. Nel corso dell'800, Carlo Albero fece erigere 4 mausolei addossati alle pareti e dedicari a diversi importanti protagonisti dell'antica storia Sabauda. Pur essendo parte integrante di Palazzo Reale si accede alla Cappella dal Duomo, attraverso due imponenti gradinate connesse. Sfortunatamente l'11 aprile 1997 l'opera lapidea della Cappella ed i suoi arredi lignei sono stati gravemente distrutti da un incendio che ha reso assai precaria la stabilità dell'intera struttura architettonica. Attualmente sono in corso i lavori di restauro, che si protrarranno ancora per altri 6 anni c.a.
Capolavoro dello stile Barocco, la Cappella della SS Sindone venne progettata e realizzata da Guarino Guarini, matematico, teologo ed architetto modenese, tra il 1668 ed il 1694 per volontà di Carlo Emanuele di Savoia. La Cappella a pianta circolare, ospita il sacro lenzuolo della SS Sindone dal 1694 ed è sormontata da un'altra cupola in pietra bigia di frabosa, mirabile successione di forme geometriche tra loro concatenate che creano uno splendido gioco di luci e di ombre. Diverse stelle di bronzo vennero intarsiate nel pavimento, realizzato in marmo bianco e grigio. Nel corso dell'800, Carlo Albero fece erigere 4 mausolei addossati alle pareti e dedicari a diversi importanti protagonisti dell'antica storia Sabauda. Pur essendo parte integrante di Palazzo Reale si accede alla Cappella dal Duomo, attraverso due imponenti gradinate connesse. Sfortunatamente l'11 aprile 1997 l'opera lapidea della Cappella ed i suoi arredi lignei sono stati gravemente distrutti da un incendio che ha reso assai precaria la stabilità dell'intera struttura architettonica. Attualmente sono in corso i lavori di restauro, che si protrarranno ancora per altri 6 anni c.a.
Il castello di Serralunga d’Alba, in provincia di Cuneo, è da molti oggi considerato uno degli esempi meglio conservati di castello nobiliare trecentesco del Piemonte. Collocato sul crinale del colle, sovrasta il paese che sorge a 415 metri sul livello del mare, a dominio del caratteristico borgo e delle sue famose vigne, in uno dei comprensori turistici più interessanti e di maggior sviluppo della regione.
L’antico maniero è simbolo indelebile di questo paesaggio, colpendo immediatamente per lo slancio e la verticalità della sua architettura gotica. Nel XII secolo – epoca in cui i discendenti di Bonifacio del Vasto, Bonifacio Minore e Ottone del Carretto, erano i signori del luogo – una torre sovrastava e difendeva il borgo. Dopo essere stato acquistato nel 1190 da Manfredo di Saluzzo, il feudo pervenne ai Falletti di Barolo, importante famiglia signorile delle Langhe: nel 1340 Petrino Falletti fece abbattere la torre, che lasciò il posto all’attuale castello.
Dal tempo della sua costruzione ad oggi pochissimi rimaneggiamenti sono stati apportati all’edificio, che non subì gravi fatti d’armi e non fu mai trasformato in sede di villeggiatura, mantenendo dunque inalterata la struttura di una roccaforte medioevale. Il castello svolgeva, più che un ruolo militare, una funzione di controllo delle attività produttive locali, come dimostra la sua stessa struttura, estremamente slanciata e tesa a sottolineare in questo modo il prestigio della famiglia Falletti. Caso unico sul territorio italiano di donjon alla francese, esso consta di diverse parti, tra cui il Palacium, blocco compatto e allungato costituito da vaste sale sovrapposte, una torre cilindrica che presenta i caratteri più innovativi dell’architettura militare del Trecento, una torre quadrata ed una cappella, piccolo ambiente con volta a botte e affreschi databili alla metà del XV secolo che raffigurano il Martirio di santa Caterina d’Alessandria. All’interno, alcuni camini di notevoli dimensioni e soffitti lignei sono le uniche testimonianze rimaste degli arredi originali.
Il castello fu acquistato dallo Stato nel 1949: vennero allora avviati i primi importanti lavori di restauro. Dal 2015 è in consegna al Polo Museale del Piemonte.
Il castello di Serralunga d’Alba, in provincia di Cuneo, è da molti oggi considerato uno degli esempi meglio conservati di castello nobiliare trecentesco del Piemonte. Collocato sul crinale del colle, sovrasta il paese che sorge a 415 metri sul livello del mare, a dominio del caratteristico borgo e delle sue famose vigne, in uno dei comprensori turistici più interessanti e di maggior sviluppo della regione.
L’antico maniero è simbolo indelebile di questo paesaggio, colpendo immediatamente per lo slancio e la verticalità della sua architettura gotica. Nel XII secolo – epoca in cui i discendenti di Bonifacio del Vasto, Bonifacio Minore e Ottone del Carretto, erano i signori del luogo – una torre sovrastava e difendeva il borgo. Dopo essere stato acquistato nel 1190 da Manfredo di Saluzzo, il feudo pervenne ai Falletti di Barolo, importante famiglia signorile delle Langhe: nel 1340 Petrino Falletti fece abbattere la torre, che lasciò il posto all’attuale castello.
Dal tempo della sua costruzione ad oggi pochissimi rimaneggiamenti sono stati apportati all’edificio, che non subì gravi fatti d’armi e non fu mai trasformato in sede di villeggiatura, mantenendo dunque inalterata la struttura di una roccaforte medioevale. Il castello svolgeva, più che un ruolo militare, una funzione di controllo delle attività produttive locali, come dimostra la sua stessa struttura, estremamente slanciata e tesa a sottolineare in questo modo il prestigio della famiglia Falletti. Caso unico sul territorio italiano di donjon alla francese, esso consta di diverse parti, tra cui il Palacium, blocco compatto e allungato costituito da vaste sale sovrapposte, una torre cilindrica che presenta i caratteri più innovativi dell’architettura militare del Trecento, una torre quadrata ed una cappella, piccolo ambiente con volta a botte e affreschi databili alla metà del XV secolo che raffigurano il Martirio di santa Caterina d’Alessandria. All’interno, alcuni camini di notevoli dimensioni e soffitti lignei sono le uniche testimonianze rimaste degli arredi originali.
Il castello fu acquistato dallo Stato nel 1949: vennero allora avviati i primi importanti lavori di restauro. Dal 2015 è in consegna al Polo Museale del Piemonte.
Il nucleo originario del castello risale verosimilmente al XII secolo, periodo in cui la dinastia dei San Martino si stava affermando nell’area canavesana. La prima trasformazione dell’originario fortilizio fu operata nel 1646 per volontà del conte Filippo San Martino, secondo un progetto che viene fatto risalire ad Amedeo di Castellamonte.
Alla morte di Filippo di Agliè il castello si presentava come una struttura sostanzialmente simmetrica a due corti, una interna e l’altra aperta verso il borgo; la facciata est era già caratterizzata dalle due torri-padiglione affacciate sul giardino ordinato a parterres.
Nel 1763 il castello fu acquistato dai Savoia come appannaggio del secondogenito di Carlo Emanuele III, Benedetto Maria Maurizio, duca del Chiablese: venne allora intrapreso un nuovo, grandioso progetto di riqualificazione del complesso ad opera dell’architetto Ignazio Birago di Borgaro. Il borgo stesso fu coinvolto nel vasto programma di rinnovamento, con l’edificazione dell’attuale parrocchiale, collegata al castello da una galleria coperta a due piani, tuttora esistente. Birago chiamò ad Agliè artisti cari alla corte torinese: i fratelli Filippo e Ignazio Collino per la statuaria delle fontane, lo stuccatore Giuseppe Bolina per gli apparati decorativi del grande atrio d’ingresso. Furono inoltre sistemati i giardini e il parco, risolto in termini di rigorosa simmetria verde, con uno specchio d’acqua lungo l’asse longitudinale. La parte di giardino pensile, vicino al castello, conserva ancora oggi l´impianto tipico del giardino all´italiana.
Durante la dominazione napoleonica il castello fu trasformato in ospizio, il parco lottizzato e venduto a privati; dopo la Restaurazione, nel 1823 rientrò nei possedimenti reali e due anni dopo ebbe inizio l’ultimo intervento di aggiornamento degli appartamenti, voluto dal re Carlo Felice. Il castello venne riarredato dagli artisti di corte; lo scultore Giacomo Spalla allestì la Sala Tuscolana, ove sono tuttora collocati i reperti rinvenuti nella villa Rufinella presso Frascati, proprietà di Carlo Felice e della regina Maria Cristina. Nella seconda metà dell’Ottocento fu riallestita la Galleria Verde.
Tra il 1830 e il 1840 il parco venne portato alla sua consistenza attuale di 34 ettari e radicalmente trasformato da Xavier Kurten secondo lo stile paesaggistico "all'inglese" allora in voga, abbandonando le simmetrie verdi per l’impianto di gusto romantico visibile ancora oggi.
Venduto allo Stato nel 1939, il castello è stato destinato a museo di sé stesso, lasciandone immutate strutture e arredi.
Il nucleo originario del castello risale verosimilmente al XII secolo, periodo in cui la dinastia dei San Martino si stava affermando nell’area canavesana. La prima trasformazione dell’originario fortilizio fu operata nel 1646 per volontà del conte Filippo San Martino, secondo un progetto che viene fatto risalire ad Amedeo di Castellamonte.
Alla morte di Filippo di Agliè il castello si presentava come una struttura sostanzialmente simmetrica a due corti, una interna e l’altra aperta verso il borgo; la facciata est era già caratterizzata dalle due torri-padiglione affacciate sul giardino ordinato a parterres.
Nel 1763 il castello fu acquistato dai Savoia come appannaggio del secondogenito di Carlo Emanuele III, Benedetto Maria Maurizio, duca del Chiablese: venne allora intrapreso un nuovo, grandioso progetto di riqualificazione del complesso ad opera dell’architetto Ignazio Birago di Borgaro. Il borgo stesso fu coinvolto nel vasto programma di rinnovamento, con l’edificazione dell’attuale parrocchiale, collegata al castello da una galleria coperta a due piani, tuttora esistente. Birago chiamò ad Agliè artisti cari alla corte torinese: i fratelli Filippo e Ignazio Collino per la statuaria delle fontane, lo stuccatore Giuseppe Bolina per gli apparati decorativi del grande atrio d’ingresso. Furono inoltre sistemati i giardini e il parco, risolto in termini di rigorosa simmetria verde, con uno specchio d’acqua lungo l’asse longitudinale. La parte di giardino pensile, vicino al castello, conserva ancora oggi l´impianto tipico del giardino all´italiana.
Durante la dominazione napoleonica il castello fu trasformato in ospizio, il parco lottizzato e venduto a privati; dopo la Restaurazione, nel 1823 rientrò nei possedimenti reali e due anni dopo ebbe inizio l’ultimo intervento di aggiornamento degli appartamenti, voluto dal re Carlo Felice. Il castello venne riarredato dagli artisti di corte; lo scultore Giacomo Spalla allestì la Sala Tuscolana, ove sono tuttora collocati i reperti rinvenuti nella villa Rufinella presso Frascati, proprietà di Carlo Felice e della regina Maria Cristina. Nella seconda metà dell’Ottocento fu riallestita la Galleria Verde.
Tra il 1830 e il 1840 il parco venne portato alla sua consistenza attuale di 34 ettari e radicalmente trasformato da Xavier Kurten secondo lo stile paesaggistico "all'inglese" allora in voga, abbandonando le simmetrie verdi per l’impianto di gusto romantico visibile ancora oggi.
Venduto allo Stato nel 1939, il castello è stato destinato a museo di sé stesso, lasciandone immutate strutture e arredi.
L’insediamento ligure di Bodincomagus (= “mercato sul Po”) ci è noto solamente da una notizia di Plinio il Vecchio, dove si ricorda che esso aveva preceduto il centro romano di Industria. Quest’ultimo va probabilmente ricondotto al periodo successivo le vittorie sulle popolazioni indigene della prima metà del II sec. a.C.
Nell’area archeologica sono visitabili un santuario dedicato alle divinità egizie Iside e Serapide e alcuni settori di isolati residenziali collocati all’incrocio tra due vie (cardo e decumano).
L’insediamento ligure di Bodincomagus (= “mercato sul Po”) ci è noto solamente da una notizia di Plinio il Vecchio, dove si ricorda che esso aveva preceduto il centro romano di Industria. Quest’ultimo va probabilmente ricondotto al periodo successivo le vittorie sulle popolazioni indigene della prima metà del II sec. a.C.
Nell’area archeologica sono visitabili un santuario dedicato alle divinità egizie Iside e Serapide e alcuni settori di isolati residenziali collocati all’incrocio tra due vie (cardo e decumano).
Fondato intorno all’XI secolo come casaforte nella Marca di Torino, il castello di Racconigi passò successivamente ai marchesi di Saluzzo e poi ai Savoia. L’originaria struttura fortificata con torri angolari fu trasformata nel corso del XVII secolo: nel 1670, in concomitanza con l’elevazione del castello a residenza dei Savoia-Carignano, André Le Nôtre progettò il giardino; nel 1676 Guarino Guarini intraprese una globale ristrutturazione dell’edificio, mai portata a termine.
A partire dal 1755 i lavori furono ripresi dall’architetto Giambattista Borra per volontà del principe Luigi di Savoia-Carignano: a questa fase risalgono i padiglioni sul prospetto principale, il grande pronao di accesso, il salone caratterizzato dalla cosiddetta “loggia dei musici”, la sala di Diana e i gabinetti cinesi. Ma è con l’ascesa al trono di Carlo Alberto, principe di Carignano, che la residenza assunse il suo aspetto odierno: nel 1820 il giardiniere tedesco Xavier Kurten ridisegnò gli spazi verdi, mentre la decorazione e il riallestimento degli interni furono affidati all’architetto Pelagio Palagi, il cui gusto tra neoclassico ed eclettico è ben rappresentato da un ambiente di singolare fascino come il Gabinetto Etrusco. Contemporaneamente furono costruiti, ai margini del parco, gli edifici di servizio in stile neogotico delle Serre e della Margaria, destinata alla gestione agricola del territorio di pertinenza del castello.
Col trasferimento della capitale da Torino a Firenze (1865) e poi a Roma (1871), i reali persero progressivamente interesse per il castello, almeno sino ai primi anni del XX secolo, quando il re Vittorio Emanuele III lo elesse di nuovo a sede di villeggiatura. Il castello fu acquistato nel 1980 dallo Stato italiano.
Il Castello si affaccia sul grande Parco Reale, aperto indicativamente da marzo-aprile fino alla fine del mese di ottobre. Il Parco del castello è un luogo carico di suggestioni, testimonianza dell'abilità e dell'esperienza degli architetti che lo progettarono e dei giardinieri che in esso lavorarono.
Nel corso della storia secolare del castello il parco ha assunto diversi aspetti. Alla fine del Seicento a nord del palazzo si disponeva, con geometrico rigore, l'armonioso giardino di Le Nôtre, il famoso architetto francese ideatore dei giardini di Versailles. Un secolo dopo Giuseppina di Lorena, principessa di Carignano, affidò a Giacomo Pregliasco la trasformazione di una parte del parco in giardino "all'inglese", secondo il gusto dell'epoca. Il giardino di Giuseppina di Lorena non presentava più lo schema geometrico ordinato di Le Nôtre (tutto aiuole e parterre), ma offriva un percorso ricco di emozioni e coinvolgente in una natura apparentemente selvaggia, in realtà sapientemente progettata dall'architetto-giardiniere.
Intorno agli anni venti-trenta del XIX secolo, parallelamente ai lavori nella residenza, anche lo spazio verde adiacente fu interessato da un ampliamento e da una profonda trasformazione. Nel parco all'inglese di Carlo Alberto, realizzato dal giardiniere tedesco Xavier Kurten, i sentieri tortuosi tra le grandi distese di prati e i boschetti, il lago dai contorni sinuosi con l'isoletta, i ponticelli, le rovine, la grotta, gli edifici pittoreschi e le prospettive sempre diverse, evocavano un'atmosfera romantica, tipica dell'arte dei giardini del XIX secolo.
Tra l'Ottocento e il Novecento il parco fu destinato principalmente a tenuta agricola e venne quindi trascurato come giardino, ma fu soprattutto durante il secondo conflitto mondiale e nel dopoguerra che si verificò una carenza di manutenzione e un progressivo stato di abbandono.
Oggi, dopo una serie di interventi e di restauri, il parco si presenta al visitatore nello stesso aspetto datogli dal Kurten nell'Ottocento. Luogo suggestivo in ogni stagione, è ricco di una grande varietà di specie vegetali e di animali protetti. Come il castello, è divenuto sede suggestiva di attività ed eventi culturali.
Fondato intorno all’XI secolo come casaforte nella Marca di Torino, il castello di Racconigi passò successivamente ai marchesi di Saluzzo e poi ai Savoia. L’originaria struttura fortificata con torri angolari fu trasformata nel corso del XVII secolo: nel 1670, in concomitanza con l’elevazione del castello a residenza dei Savoia-Carignano, André Le Nôtre progettò il giardino; nel 1676 Guarino Guarini intraprese una globale ristrutturazione dell’edificio, mai portata a termine.
A partire dal 1755 i lavori furono ripresi dall’architetto Giambattista Borra per volontà del principe Luigi di Savoia-Carignano: a questa fase risalgono i padiglioni sul prospetto principale, il grande pronao di accesso, il salone caratterizzato dalla cosiddetta “loggia dei musici”, la sala di Diana e i gabinetti cinesi. Ma è con l’ascesa al trono di Carlo Alberto, principe di Carignano, che la residenza assunse il suo aspetto odierno: nel 1820 il giardiniere tedesco Xavier Kurten ridisegnò gli spazi verdi, mentre la decorazione e il riallestimento degli interni furono affidati all’architetto Pelagio Palagi, il cui gusto tra neoclassico ed eclettico è ben rappresentato da un ambiente di singolare fascino come il Gabinetto Etrusco. Contemporaneamente furono costruiti, ai margini del parco, gli edifici di servizio in stile neogotico delle Serre e della Margaria, destinata alla gestione agricola del territorio di pertinenza del castello.
Col trasferimento della capitale da Torino a Firenze (1865) e poi a Roma (1871), i reali persero progressivamente interesse per il castello, almeno sino ai primi anni del XX secolo, quando il re Vittorio Emanuele III lo elesse di nuovo a sede di villeggiatura. Il castello fu acquistato nel 1980 dallo Stato italiano.
Il Castello si affaccia sul grande Parco Reale, aperto indicativamente da marzo-aprile fino alla fine del mese di ottobre. Il Parco del castello è un luogo carico di suggestioni, testimonianza dell'abilità e dell'esperienza degli architetti che lo progettarono e dei giardinieri che in esso lavorarono.
Nel corso della storia secolare del castello il parco ha assunto diversi aspetti. Alla fine del Seicento a nord del palazzo si disponeva, con geometrico rigore, l'armonioso giardino di Le Nôtre, il famoso architetto francese ideatore dei giardini di Versailles. Un secolo dopo Giuseppina di Lorena, principessa di Carignano, affidò a Giacomo Pregliasco la trasformazione di una parte del parco in giardino "all'inglese", secondo il gusto dell'epoca. Il giardino di Giuseppina di Lorena non presentava più lo schema geometrico ordinato di Le Nôtre (tutto aiuole e parterre), ma offriva un percorso ricco di emozioni e coinvolgente in una natura apparentemente selvaggia, in realtà sapientemente progettata dall'architetto-giardiniere.
Intorno agli anni venti-trenta del XIX secolo, parallelamente ai lavori nella residenza, anche lo spazio verde adiacente fu interessato da un ampliamento e da una profonda trasformazione. Nel parco all'inglese di Carlo Alberto, realizzato dal giardiniere tedesco Xavier Kurten, i sentieri tortuosi tra le grandi distese di prati e i boschetti, il lago dai contorni sinuosi con l'isoletta, i ponticelli, le rovine, la grotta, gli edifici pittoreschi e le prospettive sempre diverse, evocavano un'atmosfera romantica, tipica dell'arte dei giardini del XIX secolo.
Tra l'Ottocento e il Novecento il parco fu destinato principalmente a tenuta agricola e venne quindi trascurato come giardino, ma fu soprattutto durante il secondo conflitto mondiale e nel dopoguerra che si verificò una carenza di manutenzione e un progressivo stato di abbandono.
Oggi, dopo una serie di interventi e di restauri, il parco si presenta al visitatore nello stesso aspetto datogli dal Kurten nell'Ottocento. Luogo suggestivo in ogni stagione, è ricco di una grande varietà di specie vegetali e di animali protetti. Come il castello, è divenuto sede suggestiva di attività ed eventi culturali.
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